La lettera che consegnai a mio padre

 

A quel tempo i rapporti con mio padre erano freddi, lontani e molto distaccati.

Non ci sentivamo da mesi.

 

Per farla breve quel giorno decisi di chiamarlo per andarlo a trovare.

 

    Salii con l’ascensore i 7 piani del palazzo dove era andato ad abitare con sua moglie suonai il campanello, lei mi aprì e vidi mio padre seduto al tavolo che mi
    aspettava. Dopo 5 o forse 6 parole contate gli misi la lettera davanti.


So per certo che anche lui scriveva qualcosa quando era giovane, ovviamente di suo pugno, non come ora che usiamo il computer. Mio padre ha una calligrafia stupenda, che ho sempre invidiato, anche la sua firma è un capolavoro.


Da bambino mi chiedevo come facessero le sue grandi mani che battevano il martello sull'incudine, piene di calli e piccole ferite, mani che al suo rientro a casa, ogni sera erano nere di olio, che lui sfregava con la spazzola dei cani e la pasta lavamani per farle tornare pulite… come facessero a scrivere così bene.

 

E mi domandavo: “Ma quanta cura ci mette papà con quelle mani che di giorno si rovinano...”. E non capivo perché la sera erano così perfette e profumate prima di uscire. Poi compresi.

 

Comunque quel giorno di San Giuseppe gli consegnai quella lettera, scritta al computer, perché la mia grafia è orrenda; lui la lesse e vidi un luccichio nei suoi occhi.


Ma non disse mai neanche una parola.

 

 

MIO PADRE


Ti ho visto oggi
lo sguardo spento
le guance scavate

Ti ricordavo ieri
profumato e spavaldo
con le dita ben curate

Ti rivedrò domani
per quello che non hai saputo essere
per non aver saputo dare.

E potrò solo ricordarti così:

mio padre che mai
potrò fare a meno d’amare.

 

 

 

Arnaldo





Mio padre aveva un’officina metalmeccanica. Un sabato pomeriggio mentre lui non c’era entrai di soppiatto, sapevo che mio padre non voleva. Cominciai a giocare con una pallina di gomma (la famosa pallina magica) facendola rimbalzare tra i muri. La pallina era di quelle grosse e abbastanza pesanti. Ad un tratto decisi di provare a farla rimbalzare tra il pavimento e il soffitto. Così feci. Una volta, due volte; la terza ci misi tutta la forza che avevo, ma la pallina, invece di colpire il soffitto, infranse una delle lampade al neon. Era una lampada di quelle lunghe e tutta la plafoniera sfiorandomi crollò a terra andando in mille pezzi. Cominciò il mio terrore. Mio padre non
dimostrava mai effusioni d’affetto, ma il resto… Si. Passai le ore successive cercando di escogitare una scusa, all’inizio pensai di non dire niente facendo il finto tonto, poi ricordai le impronte
della pallina sul plafone. Sopraggiunse la sera e mio padre tornò a casa. 

Gli lasciai il tempo di spogliarsi e lavarsi.




Successivamente ci sedemmo a tavola per la cena. Io mi avvicinai e dissi:” Papà ti devo dire una cosa.”


"Cosa?" Rispose.


"Sono entrato in officina"


"Ma lo sai che non devi!" Inveì infuriandosi subito.


"Ma non è tutto papà" dissi a fil di voce.


Con lo sguardo torvo aspettava che io continuassi e nella mia mente già nasceva l’immagine della cinghia. 

 

Tutto d’un fiato esordii:


"giocando con la pallina ho rotto una plafoniera che è crollata..."


Seguirono alcuni istanti di silenzio, misto allo stupore di mia madre che se ne stava a lato della cucina,  più terrorizzata di me.


Mio padre rispose…: "Bhe… L’importante è che non ti sei fatto male"




Ary